1949 La nascita a Verona

Com'è nato il Baseball a Verona

Un altro anno di scuola era nato, quello che allora per noi si chiamava Ginnasio. Tre mesi di vacanze, poi il primo anno di Liceo. Dovevamo inventarci qualcosa, approfittare di quei mesi. Mica potevamo solo andare al Lago tutti i giorni, o al Boschetto, o andare a morose la sera. Rinaldo abitava in via Pigna, io in via Duomo. Le vie formavano un incrocio, un cardo e un decumano. Era la vecchia città romana, e su questo incrocio si affacciavano o quasi le nostre case. Lui aveva sempre avuto la fisima di tenersi in forma e in quel periodo, senza dir niente, aveva ripreso a fare un po’ di boxing. Scendeva le scale, girava a sinistra e dopo un isolato entrava nel magazzino dove il padre e i fratelli, avviati commercianti, tenevano in deposito cataste di pelli conciate e sacchi di lana. Dall’alto, appeso a una trave, pendeva un sacco di lana greggia particolarmente compressa e appesantito con qualche mattone sistemato proprio nel mezzo. Gli serviva per allenarsi, e far muscoli. Ma il sacco era inerte, statico, non reagiva. Gli serviva anche un “bersaglio mobile”, uno che reagisse, che lo impegnasse in difesa. Fu allora che si decise a parlarmene. “Sei un po’ magro, fammi sentire i muscoli”. Mi tirai su la manica, gli feci sentire il muscolo.“E’ debole. Devi rinforzarli”.“Perché?”“Così, non si sa mai. Potrebbe servire. Perché non fai un po’ di pugilato?”“Pugilato? Sei matto? E dove, e con chi?”

“Con me. In magazzino. Ho due paia di guanti, puoi usarne uno.”“Sì, ma, ti rendi conto che potrei farti un occhio nero?“Oppure io a te.”“E ti sembra giusto? Due amici che si prendono a pugni? Perché io in fondo la vedo così, non so se mi spiego.”“Macché, con i guantoni non si sente male, e poi facciamo in modo di andarci leggeri, quello che importa è sciogliere i muscoli, rinforzare le gambe, eccetera.”

10 Aprile 1950, prima della partita con il “Milano B.C.” In piedi: Molteni, Benato, Descolari, Saoncelli, Alberti, Danesin, Milani, Olivieri, Swaczy (allenatore) Accosciati: Vidali, Zanolli, Micheli, (mascotte), Carlini,Valente

La curiosità ebbe la meglio. Il giorno dopo uscii di casa, attraversai la strada, voltai per via Pigna e gli suonai il campanello. “Ti aspetto”, dissi. Dopo un minuto Rinaldo era in strada. Aveva due paia di guanti legati e buttati sulle spalle, un asciugamano e un paio di scarpe da tennis. Ancora una decina di passi ed eravamo nel magazzino. Fui avvolto dall’odore sgradevole di lana grassa e di pelli di vacca. Il primo contatto non fu incoraggiante.

Mi insegnò come dovevo mettermi. Gamba sinistra avanti, destra più arretrata, braccio sinistro teso, braccio destro piegato, guanto destro a protezione della faccia, testa bassa, movimenti elastici, saltellare, saltellare, elasticità, hop, hop,… poi mi arrivò un mezzo diretto, uno ‘leggero’, come aveva detto lui, ma bastò per farmi capire che quello ‘sport’ doveva essere veramente amato per essere praticato. Bisognava amare i pugni in faccia, insomma, per poterli incassare, perché quelle erano botte, e non saprei come chiamarle altrimenti.

Ora dirò che da tempo rimuginavo un sogno. Era sempre un’attività sportiva ma non c’erano sacchi da prendere a pugni, né avversari da cui proteggersi, si giocava all’aperto, outdoor (ma c’era anche una variante indoor), si prestava perfettamente all’idea di sviluppare il corpo e di impiegare il tempo delle vacanze in qualcosa di più piacevole del pugilato. Era uno sport, uno sport civile che per me aveva anche un carattere esotico. Era il baseball. Il sogno era quello di formare una squadra, meglio se due, ma il sogno si era fermato lì, non poteva, allora, permettersi di andare oltre e considerare i diversi aspetti che l’idea avrebbe comportato. Mi dovevo accontentare di guardare e riguardare certe foto su ‘Esquire’ o sul ‘Saturday Evening Post’ che trovavo all’edicola di fronte al Liceo, e che la proprietaria, che conoscevo, mi lasciava scorrere. Mi rimasero nella memoria i nomi e le gesta di Stan Musial, di Yogi Berra, e le citazioni di Babe Ruth e Joe Di Maggio, ormai scomparsi ma sempre termini di confronto, oltre a numerosi altri ‘sluggers’. Ma ancora di più fui toccato dal senso ‘estetico’ di quello sport, che gli scatti fotografici riprendevano: a volte il volo di un giocatore, altre una scivolata in base in un nugolo di polvere, e altre ancora una presa a volo ‘imprendibile’ a fondo campo, tutte azioni risicate sulla frazione di secondo, una delle caratteristiche del baseball.

Una mattina, dopo uno di quegli ‘allenamenti’ pugilistici di cui tutti e due cominciavamo ad essere stufi , mi sedetti su un sacco di lana greggia, mi tolsi i guanti e mi asciugai il sudore.

Dicembre 1951 - Comm. Gavagnin, Presidente della A.C. Bentegodi, Sig. Magi, Presidente del “Bentegodi Baseball Club”, sullo sfondo, Ing. Bisof , Presidente della “Libertas Verona Baseball Club”, Gianni “John”Vidali riceve il premio con medaglia e diploma come fondatore dei“Cardinals”.

“Senti,” dissi a Rinaldo, “hai mai pensato al baseball? Voglio dire, considerato seriamente.”

“Il baseball?”

“Già, il baseball.” Ci fu un attimo di silenzio. Sembrava che stesse raccogliendo le parole per una risposta ragionata, dentro di sé. Infatti non mi stava guardando. Infine si spiegò.

“Ne abbiamo già parlato, tempo fa, ricordi? Ti avevo detto che sarebbe un’idea magnifica, te lo ripeto anche ora, ma tu hai risposto che dovremmo affrontare un sacco di problemi, l’equipaggiamento, il terreno di gioco, i giocatori, l’apprendimento delle regole…”

“E’ vero,” dissi, “ma parliamone un po’, non ne abbiamo mai par- lato come qualcosa da realizzare, forse riusciamo a combinare qualcosa. Intanto pensiamoci. Domani riprendiamo il discorso, d’accordo?”

“D’accordo”. Il tono della risposta era promettente.

E così parlammo, e ci rendemmo conto che il problema non era semplice, ma anche che, man mano che le difficoltà affioravano, riuscivamo a contenerle e a trovare una soluzione. Alcune regole del gioco, come pure le misure del diamante, le trovammo su un’enciclopedia; per battere facemmo tornire una mazza da un falegname, la pallina era una palla da tennis. I primi movimenti furono lancio e battuta, lo spazio fu la ‘vasca’, allora asciutta, nei giardini pubblici dell’Arsenale. Io lanciavo, Rinaldo “riceveva”, poi il contrario, a turno. Poi si passava a battere, più o meno a 18 passi da chi lanciava e la leggera ed elastica pallina da tennis veniva sempre battuta troppo lontano e spesso recuperarla era un problema. La gente si fermava, guardava, qualcuno chiedeva se quello era un nuovo tipo di “s-cianco”.

“No, si chiama baseball, è un gioco americano.”

“Ah, capisco, è uno ‘scianco’ americano.”

Le prime esperienze furono deludenti, i risultati disarmanti. I pochi ragazzi che riuscimmo a coinvolgere, amici nostri, ci fecero capire che c’era poco del baseball in quei tentativi.

“Non possiamo andare avanti così”, disse un giorno Rinaldo, “a questo punto abbiamo bisogno di usare gli attrezzi giusti, guanti, mazze, palline regolamentari. Dobbiamo comprare un po’ di attrezzatura. Tu, quanti soldi hai?”

“Neanche uno,” dissi.

“Nemmeno io,” disse lui. Poi aggiunse: “Li chiederò in casa, vedremo”.

Rinaldo era il minore di sei figli, l’unico che seguisse studi regolari, l’unico con una certa cultura in una famiglia di abbienti commercianti. Insomma, era un po’ coccolato, e non gli mancava nemmeno una piccola paghetta a fine settimana. Ma in quel momento ci voleva qualcosa di più di qualche Lira. Si doveva andare a Milano, da Brigatti, un negozio di articoli sportivi. Per quanto ne sapevamo era l’unico che trattasse materiale per il baseball. Si andava in treno, ci volevano i soldi per il biglietto, e qualcosa per star via una giornata, e soprattutto i soldi per il materiale che avremmo dovuto acquistare. Eravamo ragazzi, e questi per noi erano problemi, ogni nostra spesa era a carico dei genitori. Ma Rinaldo aveva anche fratelli e sorelle che cominciavano a seguire con una certa partecipazione il nostro progetto. Uno di quei giorni Rinaldo mi suonò il campanello per dirmi, giù dall’entrata, prima ancora di salire le scale:

“Tutto a posto, in casa mi hanno dato i soldi, anche per te. Andiamo domani.”

Avevamo 17 anni ed eravamo emozionati, non tanto per il viaggio, ma perché avremmo toccato con mano (e come sarebbe potuto avvenire altrimenti?), e visto, dei veri guanti da baseball per la prima volta, oltre al resto dell’attrezzatura. Per quanto ne sapessi di attrezzature, una vera io non l’avevo mai vista, e neppure Rinaldo. L’unica esperienza di un guanto da baseball e di uno stile di lancio per me nuovo era stata a Venezia, lungo la Riva degli Schiavoni, un paio di anni prima, dov’era ormeggiato un incrociatore americano. Alcuni marinai ammazzavano il tempo con dei passaggi. Uno di essi venne chiamato a bordo, così chiese a me, ragazzo curioso di 15 anni che se ne stava lì a guardare, se volevo prendere il suo posto e continuare il palleggio. Venni colto di sorpresa ma non me lo feci ripetere. Non sapevo dove infilare le dita, né come tenere la pallina. L’istinto mi venne in aiuto e dopo alcuni lanci facili cominciai a sciogliere le giunture e a ‘sentire’ il gioco. Classico esempio di un effetto cognitivo. Quell’unica, piccola esperienza deve essere stata un ‘imprinting’ se da allora continuai a cercare immagini e dati su quello sport. Finché, come ho detto, dopo un paio di anni mi decisi a parlarne a Rinaldo e fare una visita esplorativa al negozio di Brigatti.

Non facemmo nemmeno caso al fatto che il materiale offerto in vendita non fosse nuovo. Si presentava nelle condizioni che si possono immaginare dopo che era stato usato dagli Americani al momento in cui fecero ritorno negli USA alla fine del ’45. Roba da museo si direbbe ora, un ‘vintage’ del baseball anni ’40: alcuni guanti – era tutto materiale Wilson – dovettero essere restaurati, ripuliti (scoprimmo l’uso di uno straccetto imbevuto nel latte), altri erano addirittura dei vecchi modelli da softball. Riuscimmo comunque a tornare a casa con una discreta parte di materiale, guanti, mazze, palline (alcune avvolte nel nastro isolante), un guanto da ricevitore, uno destro da prima base, e tutta la protezione per il ricevitore. La mazza del falegname continuò a far parte dell’attrezzatura, qualcuno acquistò un guanto nuovo, e così fu possibile assomigliare a una squadra regolare.

Da quel momento gli allenamenti divennero più motivati, ognuno di noi acquistò una nuova consapevolezza, la pallina volava da un guanto

1951 -“Cardinals” In piedi: Olivieri, Saoncelli, Crause, Scarozza, Milani, Alberti, Benato Accosciati: Zanoli, Mally, Ranocchi, Danesin, Descolari, Benini.

all’altro e sempre più spesso arrivava con precisione. La gestualità del baseball, caratterizzata da un’estetica che è parte integrante del gioco, la rapidità, l’attesa, lo scatto improvviso, le scivolate in base, le prese a volo raso terra, o le entusiasmanti eliminazioni sui pannelli di fondo campo, la ‘grammatica’ del gioco, per così dire, era stata inconsciamente interiorizzata un po’ alla volta dai giocatori e dopo un intenso periodo di allenamenti anche la pallina del lanciatore cominciava ad arrivare in strike, veloce e con effetti di curva.

Come campo di allenamento, in un momento in cui nessuna amministrazione cittadina si curava di creare spazi per lo sport, e tanto meno per il baseball, fu scelto l’unico posto incontrollato, benché angusto e con fondo ghiaioso, a ridosso dei bastioni oltre il ponte Catena. Lo spazio permetteva di tracciare il diamante segnando le basi con mucchietti di sassi, e di approfittare di qualche decina di metri oltre la terza base. Niente di più. I mattoni della muraglia sammicheliana bloccavano tutte le battute lunghe, le palline erano prede troppo facili per valere come eliminazione in una presa a volo. Grazie alle nostre frequentazioni sportive su quell’unico terreno allora disponibile, il ‘campo dei Bersaglieri’ così era chiamato croce e delizia dei nostri primi anni, divenne famoso nel ricordo di molti. La domenica, o il primo pomeriggio, sul contrafforte di fronte al bastione, a pochi metri dalla strada, si vedevano spesso delle persone allineate a guardare quel lancia-batti-corri che avveniva sul prato giù in basso. Era una pubblicità che ottenne risultati insperati. Diversi ragazzi chiedevano di provare i guanti, toccavano le palline, soppesavano le mazze, e poi chiedevano di entrare a far parte della squadra. Si arrivò a una dozzina di giocatori, poi se ne aggiunsero altri, era cominciato il movimento.

A quel punto bisognava inventarsi un nome. Tra i pochi che avevo notato sulle riviste mi parve che uno fosse simpatico, allegro: Cardinals. Il simbolo era un rosso uccellino, il ‘cardinale’, appunto, tipico della fauna americana, che teneva fieramente tra le ali un bastone e stava piantato a zampette divaricate, pronto a battere. Questo laicissimo cardinale divenne il simbolo della squadra e il rosso ne diventò il colore. Rinaldo fu subito d’accordo, le scelte ‘stilistiche’ erano a carico mio, considerata la mania che avevo per tutto ciò, o quasi, che fosse americano.

Tralasciando i dettagli e volendo fare un bilancio di quel periodo (dev’essere stato il 1949), la situazione era la seguente: avevamo uno spazio per gli allenamenti, l’attrezzatura, il nome, l’iscrizione alla Federazione Nazionale Pallabase, le tessere individuali, ma non avevamo un allenatore degno di questo nome. E neppure una divisa.

Passando per il vecchio e dimenticato quartiere ebraico della città avevo spesso notato una lavanderia, quasi di fronte alla Sinagoga, che esponeva una vistosa insegna: American e, sottoscritto, ‘Pulitura a Secco’. Pensavo che si trattasse di un nome usato per puro richiamo pubblicitario. Appresi invece attraverso radio passa-parola che il signore che vedevo di sfuggita passando davanti al negozio, occupato a trattare con i clienti, era proprio un Americano, e uno di quelli che la sapevano lunga in fatto di baseball. Un giorno vinsi la timidezza ed entrai. Aspettai che finisse di trattare con un cliente, poi, nella pausa, mi guardò.

“Buongiorno”, dissi.

“Buongiorno”, rispose. Non portavo capi di vestiario da lavare, ero a mani vuote. Lui notò il fatto.

“Lei è Mr Al?” chiesi.

“Alexander Swaczy, sì. Posso aiutarti?” Mi dette subito del tu.

“Io spero proprio di sì”, dissi, e diventai allegro, contento di parlare finalmente con un Americano. Le parole mi venivano sciolte, la timidezza se n’era andata. “Ma non per motivi di pulitura a secco”, precisai, e poi andai avanti. “Vede, noi abbiamo formato una squadra di baseball…”

“Ne ho sentito parlare, ma chi è l’allenatore?” Sembrava curioso, uno che non vuole perder tempo, che vuole sapere subito ciò che gli interessa.

“E’ proprio questo il motivo per cui volevo parlarle.”

“Mario,” chiamò, “per favore vieni tu al banco. Io devo parlare con questo signore”, disse scherzoso e sorridente. Entrammo nel retrobottega, dov’era la stireria e le macchine per la pulitura.

“Dimmi tutto, spiegami”, continuò Mr Al.

“Sì, insomma, abbiamo questa squadra, ma le racconterò con calma i dettagli.” Volevo arrivare al punto. “Abbiamo tutto, o quasi. Ma ci manca proprio l’allenatore. E ho sentito dire che lei è un ex-giocatore, ha esperienza del gioco, e io sono qui a chiederle a nome di tutta la squadra se se la sente di allenarci.”

“You know what I tell you?” Sai cosa ti dico? Io stesso volevo mettermi in contatto con la vostra squadra per darvi una mano. E’ vero, ho giocato con squadre professioniste di Newark, New Jersey, e conosco tutto sul baseball. A proposito, qual è il tuo nome?”

“Gianni. Gianni Vidali.”

“All right, Gianni,” (ma la sua pronuncia rispettava una grafia come ‘Johnie’) “Dimmi quando ci troviamo la prossima volta. E dove.”

Bingo! Era fatta. Corsi subito da Rinaldo e gli raccontai del colloquio. Era entusiasta.

“Ci vogliono le divise, adesso, ci vogliono assolutamente”, disse tutto agitato. “In primavera dobbiamo affrontare il nostro primo campionato!”

Era il 1949. Tutto quello che è stato raccontato sopra, dalla mazza del falegname fino all’entrata di Mr Al Swaczy (che tutti immaginavano scritto come Suesi) e alle prime partite di campionato, era avvenuto in un periodo relativamente breve, un paio d’anni, tra la fine dei ‘40 e i primi ‘50, più o meno. I ricordi di sessant’anni fa e più resistono con difficoltà alla prova del tempo.

Rinaldo aveva ragione, non c’erano le divise, e nel baseball non si gioca in pantaloncini e maglietta, ne’, come ora, si poteva alternare la casacca con una maglia. Ancor meno, come ora, con una divisa regolamentare procurata dallo sponsor. Berretto, casacca, pantaloni, calze, le bordature rosse, il nome, il numero sulla casacca e la sigla sul berretto dovevano essere create rigorosamente secondo la tradizione degli anni ’50, poco diversa da quella del primo Novecento, dove il baseball era sport di massa. La “Dea Ex Machina” che risolse la situazione fu la Maria, sorella di Rinaldo. La grande cucina di casa Olivieri diventò per qualche giorno un laboratorio di sartoria. Fu acquistata una matassa di tela olona per la confezione di quindici divise, nove per i titolari e sei per le riserve, che vennero tagliate, cucite e guarnite di strisce, lettere, e nomi in rosso. Le scarpe, per il momento, furono quelle da tennis, più tardi ne presero il posto quelle regolamentari con gli spikes di acciaio.

Il 10 aprile 1950 i Verona Cardinals si presentarono in campo al vecchio stadio di calcio Bentegodi, dove il terreno erboso e disuguale di quei tempi fu ridisegnato col gesso secondo le regole e le misure del baseball. La foto della squadra, scattata prima della partita, testimonia la presenza in campo di Alberti, Benato, Carlini, Danesìn, De Scolari, Micheli, Milani, Molteni, Rinaldo Olivieri, Saoncelli, Valente, Zanolli, e poi Swaczy e, naturalmente, io. La squadra avversaria era il Milano Baseball Club, una squadra già forte di esperienze agonistiche nel baseball che il calendario di campionato ci assegnò come primo rivale. Il ‘battesimo del fuoco’ avvenuto sotto i colpi delle mazze avversarie segnò un risultato di 18 a 1 a favore del Milano, una sconfitta annunciata ma non vergognosa, considerando che l’avversario era forte, che era la nostra prima esperienza, e che, in fondo, avevamo segnato il ‘punto d’onore’. Un punto che la fortuna affidò a me di segnare. Avevo battuto per la prima base, rubai la seconda, arrivai in terza non ricordo come, e tentai la casa base ma venni intrappolato: l’uomo di terza e il ricevitore bloccarono due o tre volte il mio tentativo di evitare che mi toccassero con la pallina, finché me ne liberai e riuscii a scivolare in casa-base dove il loro lanciatore, già pronto a ricevere la pallina, attendeva un passaggio. Che gli arrivò un millesimo di secondo dopo che ebbi toccato la tavoletta. Le partite successive dettero ai Verona Cardinals diverse opportunità di rifarsi di quella prima sconfitta, giocando sempre contro squadre di prima categoria. Ma questa è storia di dati e particolari che, pur avendomi riguardato come parte in causa, preferisco lasciarne la narrazione ad altri provvisti di una memoria più affidabile della mia. C’è tuttavia un episodio che vorrei ricordare, accaduto un po’ più avanti nel tempo rispetto a quella prima partita.

Giocavamo a Firenze contro la squadra di Strong, dev’essere stato di primo autunno, verso la fine di campionato. La partita si era protratta no ai primi accenni di oscurità. Rinaldo giocava da ricevitore, come sempre, io ero in seconda, fascetta verde di ‘capitano’. C’era un avversario alla battuta e uno in terza. L’uomo batte, un ‘campanile’ verso di me, lo elimino al volo, quello in terza scatta da circa metà corsia, io lancio a Rinaldo, un lancio lungo; la pallina gli arriva in tempo, una frazione di secondo prima, come al solito, e anche gli spikes del fiorentino gli arrivano, ma in faccia stavolta. Rinaldo lo elimina, lo vedo alzarsi, il bianco della pallina nel guanto, poi crolla. Svenuto. Ha sangue in faccia, gli cola dal naso. Faccio chiamare un’ambulanza, che arriva tempestivamente. E’ una del servizio volontario, gli addetti hanno un cappuccio nero che ne avvolge la testa lasciando liberi solo gli occhi. A Firenze era così. Caricano Rinaldo sul mezzo, io salgo con lui e partiamo a sirene spiegate. Dopo un po’ Rinaldo si sveglia, apre gli occhi, vede gli incappucciati e sbotta in un lamento: “Oh dio, son morto!” Tutto si risolse bene, fu operato al setto nasale qualche giorno dopo. Quando ritornò dall’ospedale mi suonò il campanello e mi mostrò un cartoccetto. Dentro c’erano delle piccole cartilagini rosee che gli avevano tolto. Voleva che le vedessi.

La squadra andò avanti, modificò il nome, che non fu più Cardinals ma altri nomi, rimase solo Verona, ma fu giusto così, come capita alle cose della vita. Noi si prese altre strade, il matrimonio, il lavoro. Rinaldo diventò un famoso architetto e scenografo, la ‘stella’ in piazza Bra è sua, io m’infilai nelle aule universitarie a insegnare Linguistica. Poi lui morì, troppo presto. Io sono qui, con gli altri, a ricordarlo.

 

Gianni ‘John’ Vidali 25 Luglio 2013

2 Risposta

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